Il Madagascar è il primo Paese a subire gli effetti del cambiamento climatico, di cui però non è direttamente responsabile. Così l’Onu motiva la più grave crisi idrica che il Sud del Paese si sia trovato ad affrontare in 40 anni. L’ultima pioggia risale al 2019, e ha segnato il primo evento precipitativo dopo oltre 5 anni. Il 70% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, circa 2 milioni di persone. Le donne incinta non riescono a produrre latte per i neonati, mentre i bambini più grandi sono costretti a lasciare la scuola per intraprendere lunghi e spesso infruttuosi viaggi alla ricerca di acqua. In un Paese che convive anche con la presenza endemica di malattie letali a diffusione virale e batterica, il cambiamento climatico, più di altri fenomeni, diventa un devastante catalizzatore di crisi complesse.
Già nel settembre del 2020, una volta esauritesi le scorte di cibo, più volte razionate, gli agricoltori sono stati costretti a nutrirsi e a sfamare le proprie famiglie con i sementi destinati alla semina di novembre e dicembre, decretando in questo modo, anche per l’anno a seguire, la loro dipendenza dai soli aiuti umanitari. Così, cactus, locuste e suole di scarpe sono diventate la base dell’alimentazione per migliaia di persone in Madagascar. Il WFP (World Food Programme), che ha dovuto constatare una diminuzione del 60% della produzione alimentare del Paese, ha calcolato che per fornire il cibo salvavita, in vista della prossima stagione di magra, sono necessari 78,6 milioni di dollari. In alcun modo risolutivi senza ulteriori investimenti a lungo termine.
Il Madagascar è storicamente annoverato tra i 5 Stati più poveri al Mondo, con due terzi della popolazione, già prima che il Covid-19 aggravasse la situazione, al di sotto della soglia di sussistenza. Un Paese in cui l’accesso alle infrastrutture sanitarie e alla stessa acqua potabile è di per se complesso e difficilmente garantito. Il Sud del Madagascar, tendenzialmente più arido del Nord, che al contempo è interessato dall’incremento della violenza e dell’imprevedibilità dei cicloni, sta subendo un lento e costante processo di desertificazione. I terreni agricoli sono vittima di tempeste di sabbia senza precedenti, che contribuiscono a cedere consistenti appezzamenti di terra arabile al deserto. Fenomeno, questo, accresciuto anche dai recenti incendi che hanno interessato gran parte del Paese e dal lento e costante processo di disboscamento che va avanti dal 1932, fin dall’epoca coloniale. Secondo il Global Forest Watch, dal 2001 al 2018, il Madagascar ha perso 3,63 milioni di ettari di foresta. Resta, ad oggi, solo l’1% della foresta pluviale vergine, casa di molte specie endemiche a rischio di estinzione e fondamentale antagonista naturale del cambiamento climatico.
Il Ministro per l’Ambiente e lo Sviluppo Sostenibile, Baomiavotse Vahinala Raharinirina, ha voluto mettere in guardia la Nazione, spiegando che ci proiettiamo verso un aumento delle temperature di 5 / 7 °C, che costringerebbero gli abitanti del Sud del Madagascar a vivere a temperature di 46°C. Il Ministro ha invitato tutti gli attori, nazionali ed internazionali, ad assumersi le proprie responsabilità per la situazione attuale del Madagascar: “La lotta al cambiamento climatico è una sfida globale alla quale è auspicabile il contributo e l’impegno di tutti, dei Paesi in via di sviluppo, ma soprattutto dei Paesi sviluppati, storicamente responsabili del cambiamento climatico”, puntando l’attenzione anche sull’insostenibilità della produzione e del consumo a livello mondiale, alla quale dobbiamo il costante aumento delle emissioni inquinanti, alla base della crisi climatica.
Allarmante è il report per il 2022 dell’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, che descrive “un’umanità sull’orlo della rovina”, riporta sempre il Ministro, che prosegue richiamando l’attenzione sull’importanza di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5°C. Superata questa soglia, le conseguenze sulla popolazione mondiale saranno “irreversibili” e il cambiamento climatico “non sarà più controllabile”. “L’IPCC stima che con un riscaldamento superiore ai 2°C al di sopra del livello preindustriale, 130 milioni di persone potrebbero cadere in estrema povertà entro il 2030, 400 milioni di persone dovranno far fronte a carenze idriche con un riscaldamento limitato a +2°C e 420 milioni in più di persone saranno minacciate da ondate di caldo estremo”, aggiunge il Ministro, che tiene a precisare che “C’è una probabilità del 40% che la temperatura globale media annuale arrivi a +1,5°C, in almeno uno dei prossimi cinque anni”.
Evidentemente, l’economia malgascia da sola non è in grado di sostenere i costi né dei singoli eventi catastrofici né dell’adeguamento strutturale finalizzato a mitigare gli effetti dei futuri scenari critici, che vanno ad interessare aree sempre più vaste del Madagascar. Pesa, in vista di ciò, il penultimo posto nella classifica mondiale dei Paesi destinatari di Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS), dove gli aiuti pro capite rivolti ai cittadini malgasci sono persino 1/100 rispetto ad altri Paesi. Risulta, quindi, a ragion veduta, ancora più complesso pensare ad uno sviluppo di matrice sostenibile, considerando, però, che uno sviluppo “tradizionale” aumenterebbe la resilienza economica del Paese a discapito di quella ambientale. Il prezzo in termini di vite umane, di ricaduta sull’ambiente e sull’economia, pagato dai Paesi come il Madagascar, che meno di altri impattano sull’aumento delle temperature globali per mancanza di un’economia industriale sviluppata e di una società prevalentemente non consumistica, per motivi economici più che etici, si sta rivelando più consistente rispetto a quello ad oggi pagato da chi ne è maggiormente responsabile.
Per questioni prettamente geografiche, questi Paesi sono, loro malgrado, l’avamposto per la lotta ai cambiamenti climatici, la prima linea dove combattere la battaglia oggi e un preoccupante campanello d’allarme per il domani. La responsabilità globale, per garantire un futuro sostenibile al Pianeta e di conseguenza alla specie umana, deve partire da lì, e non solo perché crisi umanitarie, seppur apparentemente lontane, si ripercuotono anche sui Paesi più sviluppati, e nemmeno, se vogliamo, per la responsabilità che questi ultimi hanno nei confronti di chi queste crisi le sta subendo suo malgrado, ma semplicemente perché il fronte si avvicina, giorno dopo giorno. E presto, impugnare l’arma della transizione sostenibile sarà insostenibile per tutti, prosciugati da una inevitabile, continua e sempre maggiore opera di ricostruzione, che non può essere che precaria, temporanea e non risolutiva, visto che la guerra ai cambiamenti climatici non è finita, o forse, verrebbe da pensare, nemmeno seriamente iniziata.
di Valerio Orfeo – Comunicare il Sociale